Diabete, i primi segnali possono esser scoperti 20 anni prima

Questo articolo in breve

I primi segni del diabete di tipo 2 potrebbero essere rilevati già vent’anni prima della diagnosi. Lo rivela uno studio presentato dai ricercatori dell’Aizawa Hospital e della Shinshu University Graduate School of Medicine di Matsumoto (Giappone) durante la Conferenza annuale della European Association for the Study of Diabetes (Easd), che si è svolta dal 1° al 5 ottobre a Berlino (Germania).

Gli scienziati hanno monitorato le condizioni di salute di 27.392 persone non diabetiche dell’età media di 49 anni, dal 2005 al 2016. Durante il periodo di osservazione, 1.067 partecipanti hanno sviluppato il diabete di tipo 2. L’indagine ha permesso di scoprire che l’aumento della glicemia a digiuno, un indice di massa corporea più elevato e una ridotta sensibilità all’insulina erano rilevabili fino a 10 anni prima che i soggetti entrassero nella fase di prediabete – che precede l’insorgenza del diabete di tipo 2 di circa un decennio.

“Dal momento che la stragrande maggioranza delle persone affette da diabete di tipo 2 attraversa lo stadio di prediabete, i nostri risultati suggeriscono che i marcatori metabolici elevati per il diabete sono rilevabili più di 20 anni prima rispetto alla sua diagnosi – afferma Hiroyuki Sagesaka, che ha diretto la ricerca -. Dato che gli studi sulla prevenzione nelle persone con prediabete sembrano avere poco successo nel follow-up a lungo termine, potremmo aver bisogno d’intervenire molto prima della fase di prediabete per prevenire la progressione verso il diabete”.

Gli ultimi studi dimostrano che il colesterolo HDL stimola da una parte le cellule beta a produrre insulina e dall’altra parte tiene sotto controllo la secrezione di glucagone, l’ormone prodotto dalle cellule alfa del pancreas che fa alzare la glicemia ed è spesso troppo elevato nei soggetti con diabete e pre-diabete. Questo studio apre dunque nuove prospettive terapeutiche sia nel diabete di tipo 1 che di tipo 2. Uno dei lavori, firmato da giovani ricercatori italiani, è stato presentato all’Easd grazie a un grant della Società Italiana di Diabetologia SID.

La novità di questo studio è che “per la prima volta è stato dimostrato un ruolo del colesterolo Hdl nel ridurre la secrezione di glucagone che induce iperglicemia. Si aprono dunque – afferma Sesti, anche president della Fondazione Diabete Ricerca – nuove prospettive terapeutiche nel diabete 1 e 2”.

Prospettive terapeutiche. Questo studio apre dunque nuove prospettive terapeutiche sia nel diabete di tipo 1 sia di tipo 2. Il gruppo di ricerca diretto dal professor Giorgio Sesti presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, studiando una coorte di 130 soggetti non diabetici, ha evidenziato una correlazione inversa tra i livelli circolanti di HDL e glucagone.

I risultati ottenuti, spiega la ricercatrice Gaia Mannino dell’Università Magna Graecia, “evidenziano un nuovo ruolo esercitato dal colesterolo Hdl, suggerendo la possibilità che strategie terapeutiche in grado di aumentare i livelli circolanti di Hdl possano essere utili nel migliorare il controllo metabolico nei soggetti con diabete”.

Abbassare e mantenere il proprio livello di colesterolo ad un valore “ideale” consente di ridurre in misura significativa il rischio di gravi malattie cardiovascolari. Ma tale valore non è uguale per tutti ed è tanto più basso quanto più esistono altri fattori di rischio.

IL DIABETE VIENE A CHI MANGIA TANTI DOLCI

Falso. Il consumo consistente di dolci non ha alcuna relazione con l’insorgenza del diabete di tipo 1. È molto importante seguire un’alimentazione varia ed equilibrata e che la quota di zuccheri semplici (bibite zuccherate e dolci) non superi il 10% delle chilocalorie giornaliere. Il sovrappeso, in persone geneticamente predisposte, può contribuire all’insorgenza del diabete di tipo 2. (vedi pagina 6 per i dettagli sul diabete tipo 1 e 2).

LE PERSONE DIABETICHE DEVONO SEGUIRE UNA DIETA FERREA PER TUTTA LA VITA

Seguire un’alimentazione adeguata è un punto cardine nella gestione del diabete, tuttavia non esiste una “dieta per diabetici”, che preveda imposizioni rigide o restrittive. Le linee guida generali da seguire sono quelle della sana alimentazione, alle quali tutti dovrebbero attenersi.

SOSTITUIRE LO ZUCCHERO CON FRUTTOSIO,

ZUCCHERO DI CANNA E DOLCIFICANTI ARTIFICIALI

Falso. L’utilizzo di dolcificanti in sostituzione degli zuccheri è sconsigliabile. Piccole quantità di zucchero (saccarosio) sono ritenute accettabile nell’alimentazione dei soggetti con diabete, purché ci si abitui a consumarle quando necessario, senza abusarne e purché l’alimentazione sia equilibrata, ricca in fibre e si mantenga il controllo metabolico.

CHI HA IL DIABETE DEVE RINUNCIARE ASSOLUTAMENTE AI DOLCI

Non è vero. I dolci possono essere consumati, ma con moderazione. Indicazione questa che vale anche per la popolazione generale. Tra gli alimenti dolci occorre fare una distinzione: meglio scegliere un prodotto da forno, come torte o biscotti ed evitare caramelle, cioccolatini, barrette, cereali da colazione.

NIENTE RESTRIZIONI PER GLI ALIMENTI RICCHI IN PROTEINE (CARNE, PESCE, UOVA, AFFETTATI…)

Il consiglio è non eccedere. Le proteine, se assunte in eccesso, vengono convertite in glucosio (zucchero) dal fegato e contribuiscono ad aumentare la glicemia. Per evitare ciò è bene suddividere l’apporto proteico giornaliero nei vari pasti. Un’abbondanza di proteine comporta anche un sovraccarico a livello renale.

I CARBOIDRATI (PASTA, RISO, PANE, PATATE…) SONO BANDITI NELL’ALIMENTAZIONE DI UNA PERSONA DIABETICA

Falso. I carboidrati devono rappresentare il 45-60% dell’apporto energetico giornaliero. Questo vale anche per le persone diabetiche. Inoltre, è fondamentale che ciò che mangiamo, oltre a essere sano, sia anche buono e gradevole. Quindi è sufficiente prestare attenzione alla quantità e alla qualità dei carboidrati. Meglio consumare quelli complessi (come ad esempio cereali, riso, pasta..), che vengono assorbiti più lentamente e forniscono energia per un tempo prolungato mantenendo più stabili i livelli glicemici.

È CONSIGLIABILE CHE LE PERSONE DIABETICHE CONSUMINO “ALIMENTI PER DIABETICI” E CIBI “SENZA ZUCCHERO”

Assolutamente no. Gli “alimenti per diabetici” non sono necessari né tantomeno vantaggiosi e il loro prezzo è piuttosto elevato. Questi prodotti, infatti, hanno un contenuto in carboidrati pari a quelli classici, con la differenza che contengono dolcificanti al posto del saccarosio come zucchero semplice. Inoltre il contenuto di grassi (soprattutto saturi) è spesso più elevato. Sono anche sconsigliati perché possono indurre il concetto che, essendo “per diabetici”, possono essere consumati senza limitazioni.

SOLO GLI ALIMENTI DOLCI FANNO AUMENTARE LA GLICEMIA

Falso. L’aumento della glicemia è determinato principalmente, ma non solo, dai carboidrati. I carboidrati sono presenti in molti alimenti, non solo in quelli dal sapore dolce. Forse non tutti sanno che anche un pasto particolarmente ricco di proteine può causare un aumento tardivo della glicemia dopo i pasti, poiché le proteine in eccesso vengono trasformate in zuccheri dal fegato e sono talvolta responsabili di un aumento inaspettato e inconsapevole della glicemia.

LA FRUTTA DEVE ESSERE ELIMINATA PERCHÉ CONTIENE ZUCCHERO

Assolutamente no. Assumere quotidianamente 2-3 porzioni di frutta, preferendo quella di stagione, dà un apporto adeguato di vitamine, sali minerali e fibre necessari per la salute. È bene invece ridurre la più “zuccherina” (banana, uva, cachi, fichi e mandarini); evitare succhi, frullati e puree, ma anche la frutta disidratata o sciroppata, mentre è favorevole il consumo di frutta secca oleosa (mandorle, noci, nocciole, pistacchi…), che ha un contenuto molto ridotto di carboidrati, purchè si presti attenzione alla porzione.

CHE COS’E IL DIABETE

Il diabete mellito è una malattia cronica causata dall’aumento della glicemia, ovvero dei livelli di zucchero nel sangue, che l’organismo non è in grado di riportare alla normalità. Questa condizione può dipendere da una ridotta produzione di insulina, l’ormone secreto dal pancreas per utilizzare gli zuccheri e gli altri componenti del cibo e trasformarli in energia, oppure dalla ridotta capacità dell’organismo di utilizzare l’insulina. È possibile convivere con il diabete e prevenire le complicanze, ma è fondamentale conoscere che cosa, nella vita di ogni giorno, provoca un aumento o una diminuzione della glicemia in modo da mantenerla il più possibile vicino ai livelli normali.

DIABETE MELLITO DI TIPO 1

È causato dalla perdita o dal malfunzionamento delle cellule che producono l’insulina nel pancreas (cellule beta), si manifesta soprattutto prima dei 40 anni, in modo spesso improvviso e con sintomi sempre palesi quali la sete consistente e la poliuria (aumento del bisogno di urinare). Questo tipo di Diabete è sempre curato con iniezioni di insulina per tenere sotto controllo la glicemia.

DIABETE MELLITO DI TIPO 2

Oggi nel mondo 1 adulto su 14 ha il diabete di tipo 2. È conosciuto anche come “diabete dell’anziano” o “diabete alimentare”, si manifesta generalmente dopo i 40 anni, soprattutto in persone sovrappeso od obese. La sua evoluzione è lenta. Questo tipo di diabete viene curato con una dieta bilanciata, l’esercizio fisico e la riduzione del peso in eccesso. La cura si basa anche sull’uso di farmaci e, se necessario, di insulina. Il diabete tipo 2 compare lentamente, nel corso di vari anni e viene diagnostica spesso in maniera occasionale.

GLI ALTRI TIPI

Esistono anche altre forme di diabete: quali il diabete gestazionale, che può apparire durante il periodo della gravidanza e altri meno frequenti come il diabete genetico, il diabete causato da alcuni farmaci (cortisonici, ad esempio) e il diabete causato da alcune malattie del pancreas.

L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas e che controlla il glucosio nel sangue. Non ha né effetti collaterali né controindicazioni, anche se il suo utilizzo aumenta il rischio di ipoglicemia e di aumento di peso. Quando si inietta l’insulina, il livello di zucchero nel sangue scende, perché essa funziona come una chiave in grado di sbloccare le porte delle cellule nel corpo. Una volta che le porte delle cellule sono aperte, lo zucchero può muoversi dal sangue nelle cellule e da qui fornire energia al corpo. La terapia insulinica può prevedere una o più iniezioni al giorno; in genere nella zona dell’addome, nelle cosce, nei glutei e nel braccio. È importante che il paziente vari il sito di iniezione, che può avvenire anche nella stessa zona, ma con una distanza minima tra una iniezione e l’altra pari alla larghezza di un dito.

L’AUTOMONITORAGGIO

Glucometro, pungi-dito e diario glicemico sono i tre strumenti per tenere monitorati i valori glicemici. Per controllare la glicemia è sufficiente una piccola goccia di sangue, generalmente prelevata dal polpastrello con il pungi-dito e posta su un’apposita striscia reattiva che va inserita all’interno del glucometro. Una buona conoscenza dei propri livelli glicemici facilita la gestione del diabete. È consigliabile misurare la glicemia almeno 6 volte al giorno, prima di ogni pasto compresi gli spuntini e prima di andare a dormire.

LA PENNA INSULINICA

Per l’iniezione si utilizza la penna iniettiva pre riempita o usa e getta, strumenti discreti e che possono essere portato ovunque. Per essere certi del suo buon funzionamento è bene tenere le penne che non sono in uso nel frigo e dopo il primo utilizzo conservarla a temperatura ambiente. Fare attenzione alle data di scadenza e proteggere l’insulina dal caldo eccessivo, dall’umidità e dalla luce. Rimuovere l’ago dopo ogni uso e smaltire secondo le norme vigenti.

IPOGLICEMIA

L’ipoglicemia è il rapido abbassamento al di sotto dei valori normali del livello di zucchero nel sangue e rappresenta la più frequente delle complicanze acute del diabete. L’ipoglicemia è più frequente nell’intervallo fra i pasti e nelle ore notturne.

LE CAUSE – Il mancato rispetto degli orari e della tipologia della dieta, l’attività fisica non prevista e il sovradosaggio di insulina o di ipoglicemizzanti.

I SINTOMI – Sensazione di malessere generale, senso di fame, debolezza, spossatezza, mal di testa, tremori, sudorazione, palpitazioni cardiache. Ma anche indebolimento della vista, pallore, sonnolenza, depressione, irritabilità, cambiamento di personalità e difficoltà di risveglio.

Alla base del diabete sta l’alterazione di uno dei tanti meccanismi di controllo omeostatici che rendono possibile la vita. Il controllo della glicemia, cioè il suo mantenimento entro una gamma di valori sensibilmente costante nonostante le continue forti spinte al cambiamento in entrambe le direzioni, consente la fornitura regolare del principale carburante – il glucosio – al sistema nervoso centrale. Come tutti i sistemi di controllo automatici, anche quello della glicemia si basa su verifiche periodiche della variabile in questione – il cosiddetto monitoraggio – e su un effettore in grado di attuare interventi correttivi di direzione opposta alla variazione misurata.

Sappiamo da molti anni che, per realizzare il fine controllo della glicemia l’organismo si serve di un sistema complesso e sensibilissimo, basato sulla verifica continua della glicemia e su una pronta risposta ormonale volta a indirizzare i flussi di substrati nei diversi organi e tessuti nella giusta direzione, il tutto reso ancora più sensibile dall’intervento del sistema nervoso autonomo. L’organo chiave ove sono situati sia il sensore che il principale effettore dell’apparato di controllo della glicemia è l’isola di Langerhans. Il guasto associato al diabete riguarda l’effettore, cioè la parte dell’apparato di controllo deputata alla correzione della glicemia, e in particolare la parte di esso deputata alla sua riduzione.

La glicemia va dunque incontro a oscillazioni prevalentemente verso l’alto, tanto più ampie quanto più il sistema di controllo è compromesso. Passando dalle forme più lievi di ridotta tolleranza al glucosio, al diabete tipo 2, al diabete tipo 1 insulino-privo, possiamo immaginare un continuum di difettoso controllo glicemico paragonabile dapprima a una ridotta sensibilità, poi a una staratura e infine a una totale rottura, con incontrollata salita della glicemia In attesa di trovare una cura che ripari in modo definitivo l’apparato di controllo, la terapia del diabete si è sempre basata sul rafforzamento delle ridotte capacità ipoglicemizzanti dell’organismo. Pur senza raggiungere la guarigione, tale terapia può essere oggi molto efficace, consentendo di avvicinarsi alla normalizzazione delle oscillazioni glicemiche e di prevenire le conseguenze nocive della cronica iperglicemia. In particolare nel diabete tipo 2, la terapia si basa sul ripristino della sensibilità del meccanismo di controllo fisiologico, sul quale si attua un specie di risettaggio: che si tratti di dimagrimento, attività fisica e/o farmaci, quando la terapia funziona, il controllo glicemico così ottenuto è dunque praticamente perfetto. Invece, nei casi di diabete tipo 2 in cui si rende necessaria una terapia sostitutiva con insulina, così come nel diabete tipo 1, il normale apparato di controllo automatico viene messo fuori-gioco e si rendono necessari interventi “manuali” di monitoraggio e di correzione.

È inevitabile che il controllo “manuale” sia meno fine di quello automatico, ma con gli strumenti oggi a disposizione è possibile raggiungere risultati molto buoni, impensabili solo venti anni fa. La necessità di sostituire una parte dell’apparato di controllo, infatti, impone di ripristinare tutte le sue parti, compreso il sensore. Ora, mentre l’effettore – l’insulina – era già disponibile da più di mezzo secolo, ancora alla fine degli anni ’70 non disponevamo di un valido mezzo per monitorizzare con sufficiente rapidità e precisione le oscillazioni della glicemia.

Il problema nasce dal fatto che, come accade per altre variabili biologiche fra cui colesterolo e pressione arteriosa, le oscillazioni della glicemia, a meno che non raggiungano valori estremi verso il basso o verso l’alto, non si avvertono. Basandosi sui sintomi è possibile prevenire i più gravi scompensi, ma si corrono rischi, e le complicanze tardive sono dietro l’angolo. Bisognava dunque dosare direttamente la glicemia, o il suo derivato, la glicosuria. Una cosa però era chiara sin da allora: il monitoraggio della glicosuria – e anche il monitoraggio della glicemia, fosse pure continuo – effettuato in condizioni particolari, come durante un ricovero ospedaliero, aveva poco significato rispetto all’automonitoraggio effettuato dal paziente o dai suoi genitori nella vita di tutti i giorni, al fine di un aggiustamento della terapia appunto nella vita abituale.

Un primo grande progresso nella cura del diabete avvenne in quegli anni con l’introduzione dell’automonitoraggio della glicosuria (il primo prodotto in commercio, si basava sull’uso di una provetta e di un contagocce per urine e acqua, che andavano versate su una compressa reattiva: il colore finale del liquido dava un’idea semi-quantitativa del glucosio nelle urine). Grazie a quel sistema molti bambini e adulti con il diabete tipo 1 poterono prevenire gli scompensi acuti del diabete e migliorare i risultati della terapia nel lungo periodo. Il grande cambiamento che ha rivoluzionato la cura del diabete, come e forse più di tanti progressi farmacologici e tecnologici, pure importantissimi che ci sono stati, è avvenuto all’inizio degli anni ’80 ed è consistito nello sviluppo di tecniche pratiche e affidabili per la misura della glicemia capillare. Il primo prodotto, in commercio già da qualche anno, consisteva in una striscia reattiva che cambiava colore in proporzione alla reazione fra glucosio nel sangue e la glucosioossidasi presente sulla striscia. Al tempo stabilito la striscia doveva essere lavata e il colore poteva essere confrontato con una scala colorimetrica. Poi venne prodotto e diffuso un lettore elettronico che effettuava una lettura colorimetrica strumentale: pesava circa un Kg e andava collegato alle rete elettrica. Infine vennero introdotti i pungidito a scatto che finalmente consentirono di ottenere la goccia di sangue in modo del tutto indolore.

Da allora è stato un susseguirsi di piccoli ma costanti progressi tecnologici che hanno reso l’automonitoraggio della glicemia: a) sempre più pratico grazie alla riduzione delle dimensioni degli apparecchi (pochi centimetri e pochi grammi di peso), del volume di sangue (pochi microlitri) e dei tempi richiesti (pochi secondi); b) sempre più affidabile grazie alla riduzione delle variabili legate all’operatore; c) sempre più comunicabile, grazie alle memorie dei lettori che registrano un elevato numero di misurazioni con data e ora, e consentono di trasferire i dati per via elettronica. È vicino il momento in cui sarà largamente disponibile la registrazione continua della glicemia ottenuta in maniera non invasiva. Tuttavia per i problemi tecnici e di affidabilità che questi apparecchi mostrano oggi, e per i costi elevati d’uso che ancora avranno per qualche anno, è ipotizzabile che il ruolo degli attuali sistemi di automonitoraggio della glicemia resti invariato per numerosi anni.

Un’alimentazione adeguata e un’attività fisica regolare rimangono in ogni caso indispensabili. Se ciò non consente di raggiungere il tasso di colesterolo desiderato, definito per ogni singolo paziente – cosa frequente in presenza di svariati altri fattori di rischio – il medico aggiungerà una terapia farmacologica

Che cos’è l’ipercolesterolemia?

L’ipercolesterolemia è definita come la presenza di un eccesso di colesterolo nel sangue. Il prelievo di sangue, che consente di dosare i lipidi (o grassi) in circolazione, deve essere compiuto dopo 12 ore di digiuno. Il bilancio di base, effettuato in ambito diagnostico o di controllo, comprende il dosaggio del colesterolo totale, dei trigliceridi, del colesterolo HDL (il colesterolo “buono” ) e del colesterolo LDL (il colesterolo “cattivo”).

In un paziente che non presenti nessun altro fattore di rischio vascolare, il bilancio è considerato normale se:

– il colesterolo LDL è inferiore a 160 mg/dl,

– i trigliceridi sono inferiori a 150 mg/dl

– il colesterolo HDL è superiore a 40 mg/dl.

Se il primo esame è normale, è sufficiente ripetere il controllo ogni 5 anni, salvo un caso di eventi particolari.

Se si rileva un’anomalia, occorre invece procedere ad un nuovo dosaggio. Se l’ipercolesterolemia è confermata, il livello fino al quale è auspicabile ridurre il colesterolo sarà determinato in funzione della presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare.

Perché è necessario evitare gli eccessi di colesterolo?

L’eccesso di colesterolo in circolazione favorisce la formazione di accumuli di grasso (o placche) sulle pareti delle arterie. Questa malattia arteriosa (aterosclerosi) è all’origine di gravi complicazioni, quali:

– le affezioni coronariche, responsabili dell’angina pectoris e dell’infarto del miocardio;

– gli ictus, con conseguenze di tipo emiplegico;

– l’arteriopatia cronica degli arti inferiori, che può provocare ulcere cutanee o una notevole limitazione della attività. Lottare contro l’aterosclerosi permette di prevenire o di ritardare la comparsa di queste malattie cardiovascolari, principale causa di mortalità nei paesi industrializzati.

In che modo il medico stabilisce l’obiettivo da raggiungere?

Il rischio cardiovascolare complessivo di ciascun paziente determina l’obiettivo prefissato: più il rischio è elevato, più il livello di colesterolo LDL da raggiungere sarà basso.

I fattori di rischio di cui il medico deve tenere conto per stabilire un obiettivo in termini di colesterolo LDL sono i seguenti:

– l’età (più di 50 anni per l’uomo e più di 60 anni per la donna);

– antecedenti famigliari di malattia coronarica precoce: infarto miocardico o morte improvvisa prima dei 55 anni del padre o di un parente di 1° grado, prima dei 65 anni della madre o di una parente di 1° grado;

– il fumo, praticato o interrotto da meno di 3 anni;

– l’ipertensione arteriosa permanente;

– il diabete di tipo 2;

– un tasso di colesterolo HDL < 40 mg/dl.

II rischio cardiovascolare è considerato basso in assenza di fattori di rischio e le concentrazioni di colesterolo LDL devono semplicemente scendere al di sotto di 220 mg/dl.

Il rischio cardiovascolare è detto intermedio se esiste almeno un altro fattore di rischio. Più questi fattori sono numerosi, più il valore del colesterolo LDL dovrà essere basso:

– inferiore a 190 mg/dl in presenza di uno di questi fattori;

– inferiore a 160 mg/dl se esistono due fattori associati;

– inferiore a 130 mg/dl in presenza di più di due o molteplici fattori di rischio.

Il rischio elevato riguarda coloro che hanno un antecedente di malattia cardiovascolare conclamata (sindrome coronarica o ictus) o che presentano rischi equivalenti (in particolare, il diabete di tipo 2 è considerato ad alto rischio quando è associato ad una microalbuminuria o ad altri due fattori di rischio). In tal caso, l’obiettivo deve essere quello di abbassare il colesterolo LDL al di sotto di 100 mg/dl.

Stile di vita

Dopo aver parlato dell’alimentazione quotidiana, diamo un rapido sguardo anche allo stile di vita. Vizi come fumo, alcol, caffè e droghe ricreative peggiorano ovviamente la tua salute. Vita stressante, sovrappeso, assunzione di farmaci e mancanza di esercizio sono fattori aggiuntivi. Esaminiamoli per capire chiaramente quale impatto hanno sul nostro benessere.

Benefici dell’esercizio
L’esercizio è il più importante fattore dello stile di vita da considerare. Il tuo lavoro comporta attività fisica? Fai qualche sport durante la settimana, come golf o tennis, per tenerti in forma? Sei iscritto a una palestra o hai in casa un’attrezzatura sportiva? Frequenti una piscina coperta? Fai una passeggiata ogni giorno? Per molte persone, camminare è l’attività più pratica, efficace e piacevole. Puoi ridurre i lipidi nel sangue e abbassare la pressione senza apportare cambiamenti nella tua dieta, semplicemente camminando mezz’ora al giorno. Sono stati condotti numerosi studi sulle proprietà ipocolesterolemizzanti di qualunque esercizio, anche per i giovani.

Presso la scuola medica di un’università in Turchia (Indian Journal of Physiology & Pharmacology, 1999, vol. 43), fu dimostrato che uomini di qualsiasi età che si esercitavano regolarmente avevano livelli più bassi di colesterolo totale e LDL, e più alti di HDL, meno grasso corporeo e in generale un minor rischio di cardiopatie coronariche. Presso l’Università del Maryland (Medical Science Sports Exercise, 1994) venne condotto uno studio a lungo termine della durata di dieci mesi su uomini anziani obesi. Ai soggetti fu prescritta una combinazione di dieta ipocalorica ed esercizio. Ovviamente persero peso e grasso corporeo, i loro livelli di colesterolo totale, LDL e trigliceridi diminuirono, e quelli di HDL aumentarono. La stessa università (Metabolism & Clinical Experiments, 1999, condusse un altro studio di nove mesi su uomini di mezza età in sovrappeso.

Questa volta, i ricercatori prescrissero ai pazienti la dieta raccomandata dall’American Heart Association (AHA), che non è affatto rigida o difficile da seguire, e regolare esercizio aerobico. I risultati ottenuti furono gli stessi del precedente studio, e la salute degli uomini migliorò notevolmente. I medici del Centro per le malattie degli adulti a Osaka (Domyaku Koka, 1994,) fecero camminare ogni giorno quattrocentocinquantanove uomini sani di mezza età. Nessun cambiamento nella dieta o nello stile di vita, nessun integratore, soltanto passeggiate. Come risultato, i livelli di HDL aumentarono, e il rischio di cardiopatie coronariche diminuì quasi immediatamente. Presso l’Università di Padova (Journal of Sports Medicine, 1991), a giovani atleti d’ambo i sessi furono prescritti esercizi aerobici o di resistenza. Nei soggetti vennero riscontrati evidenti benefici, a prescindere dal tipo di attività. In questi giovani sani e ben allenati furono riscontrati come di consueto un abbassamento dei livelli di CT, LDL e TG, e un aumento di quelli di HDL. Uno studio analogo fu condotto all’Università del Vermont (Metabolism & Clinical Experiment, 1992).

Anche in questo caso, i ricercatori osservarono che il tipo di esercizio – aerobico o di resistenza – non ha importanza, perché si ottengono sostanzialmente gli stessi benefici cardiovascolari. Essi dichiararono: “I giovani che si dedicano a esercizi aerobici e quelli che praticano allenamento di resistenza presentano entrambi profili di rischio di cardiopatie vascolari migliori rispetto ai coetanei non allenati, e questo appare legato al loro basso livello di adiposità (massa grassa) e di assunzione di grassi alimentari”.

Presso l’Università di Pittsburgh (Journal of Sports Medicine, 1995), a gruppi di donne in premenopausa e in postmenopausa venne chiesto di camminare ogni giorno. Quelle in postmenopausa avevano un’età media di cinquantacinque anni e ben il 38 per cento di grasso corporeo! I medici dichiararono: “Un unico, ma intenso periodo di camminate può influire notevolmente sul profilo ematico dei lipidi sia delle donne in premenopausa che di quelle in postmenopausa”. Alla Texas A&M University (Journal of Applied Physiology, 1995), a uomini di mezza età furono prescritti programmi di esercizi a breve termine, con i consueti risultati positivi. “Questi dati”, sottolinearono i ricercatori, “dimostrano che una sola seduta di esercizi, effettuata da uomini ipercolesterolemici e privi di allenamento, modifica le concentrazioni ematiche di lipidi e apolipoproteine”. Nota che parlarono di un’unica seduta. L’esercizio è una terapia efficace.
Sai già che l’esercizio fisico fa bene e riduce i grassi nel sangue anche senza modificare la dieta. Pensa cosa potrà fare una passeggiata quotidiana quando apporterai qualche cambiamento nell’alimentazione e assumerai integratori sperimentati!

Assunzione di farmaci e droghe ricreazionali

Gli americani assumono molti più farmaci tossici di qualunque altro popolo. Il danno provocato è incalcolabile. Oltre duecentomila persone muoiono ogni anno a causa di questi abomini sintetici. Oggi, i più diffusi sono gli antidepressivi e altri psicofarmaci. Non si devono prendere medicinali se non in rare occasioni, come oppiacei per alleviare temporaneamente il dolore o insulina per i diabetici di tipo 1, il cui pancreas non produce più questo ormone. Non puoi avvelenare la via verso la salute. Esiste una cura naturale per tutte le condizioni mediche.
In America si consumano anche molte più droghe ricreative che in ogni altro Paese. La più usata è la marijuana, ma per fortuna i suoi effetti fisici sono limitati. Quelli negativi sono psicologici. I farmaci oppiacei dilagano, specialmente l’idrocodone, Vantidolorifìco più prescritto negli Stati Uniti. L’elenco include antidepressivi e stimolanti. La cocaina è ancora estremamente diffusa, nonostante il prezzo elevato. Le anfetamine di ogni genere sono ampiamente consumate. L’ecstasy è molto popolare. Le droghe psichedeliche sono state per lo più abbandonate. Siamo la nazione più drogata della Terra. Si tratta semplicemente di un sintomo di profonda infelicità e insoddisfazione nella nostra vita.

Fumo
Un terzo degli americani adulti fuma. Il fumo è associato a molte serie patologie, compresi diversi tumori. Ovviamente, non occorre fornire prove dei suoi effetti letali. I più completi e autorevoli studi sul cuore, come quello dei Sette Paesi e di Helsinki, li hanno ripetutamente dimostrati. Il fumo peggiora il profilo ematico dei lipidi, è una delle principali cause di cardiopatie coronariche e abbrevia la durata della vita. Il National Cholesterol Education Program pubblicò un lungo rapporto (Archives of International Medicine, 1988, vol. 148) su tutti gli aspetti della pericolosa ipercolesterolemia. Esaminando il fumo come fattore, i ricercatori scoprirono che tra gli uomini con i livelli di colesterolo più bassi il tasso di mortalità era di 1,6 decessi per mille se non fumavano, ma del 6,3 in caso contrario. Tra quelli con i livelli più alti, l’incidenza era del 6,4 per mille se non fumavano, ma addirittura del 21,4 se erano fumatori. Il problema è che la nicotina dà una tale dipendenza che è molto difficile smettere. Non c’è motivo di citare una serie di studi per dimostrare ciò che è già evidente. Il fumo è una delle maggiori cause di cardiopatie, altera i livelli degli steroidi, ha innumerevoli effetti negativi sulla salute e provoca una morte prematura. Se vuoi vivere un’esistenza lunga, sana e attiva, ed evitare patologie cardiache e arteriose, devi smettere di fumare. È molto importante notare che una volta smesso, la tua salute migliorerà assai rapidamente. Ti avvicinerai ben presto allo stesso livello di rischio di CPC (cardiopatie coronariche) di chi non ha mai fumato. Non è mai troppo tardi per smettere, e in poco tempo puoi annullare la maggior parte del danno che hai prodotto.
Caffeina
La ricerca ha dimostrato che il caffè, o la caffeina sotto qualunque forma (come bevande energetiche, guaranina, matè), è molto più nocivo di quanto potresti pensare. I tipi non filtrato, preparato con la caffettiera francese ed espresso sono anche peggiori, a causa della presenza
degli oli tossici cafestolo e kaweolo. La caffeina è la droga psicoattiva più diffusa al mondo. Dà assuefazione, ed è facile diventarne dipendenti. È legale, economica, popolare e socialmente accettabile. Ha effetti estremamente negativi sui livelli di colesterolo e trigliceridi, e ancor più dannosi sui valori glicemici e insulinici. Contribuisce all’ipertensione, che è la condizione medica più comune. Studi che dimostrano tutto questo sono stati condotti presso istituti come la Nordic School of Public Health in Svezia, l’Istituto nazionale olandese di sanità pubblica e il King’s College a Londra. Una sola tazza di caffè o una dose di caffeina al giorno è sufficiente a rovinare la salute e abbreviare la vita. Se sei schiavo della caffeina, ammetti la tua dipendenza e liberatene.
Alcol
L’alcol rappresenta un problema molto più complesso. Nella maggior parte dei Paesi esiste un grave problema legato al suo consumo. Nessun’altra droga al mondo causa, neanche lontanamente, i danni dovuti al consumo di alcol. Tutti gli studi più importanti hanno dimostrato che il bere eccessivo (ovvero più di due drink al giorno o un’abbondante bevuta anche una sola volta alla settimana) è uno dei principali fattori di rischio di cardiopatie coronariche. Le donne sono molto più sensibili all’alcol rispetto agli uomini. Secondo alcuni studi, le persone che bevono soltanto uno o due drink al giorno (e non superano mai tale quantità) dovrebbero soffrire meno di cardiopatie, avere livelli di colesterolo più bassi e vivere più a lungo di quelle astemie. In realtà, l’alcol, anche assunto con moderazione, non rientra in un sano stile di vita. Bevendo solo un paio di drink al giorno puoi non nuocere al tuo profilo lipidico ematico o non aumentare il rischio di cardiopatie, ma vi saranno altri danni. Superare questa quantità o bere abbondantemente una volta alla settimana aumenterà i tuoi livelli di colesterolo, e avrai maggiori probabilità di soffrire di disturbi cardiaci e arteriosi. Tieni presente che è stato dimostrato che perfino uno o due bicchieri al giorno aumentano il rischio di altre patologie. L’alcol è un veleno, non un “paradosso francese”.
Conclusione
Le prove dell’importanza di un sano stile di vita sono ormai schiaccianti. Fumo, alcol, droghe, cattive abitudini alimentari e mancanza di attività fisica sono fattori determinanti associati a diversi seri problemi di salute, come cancro, patologie cardiovascolari e obesità. Sappiamo che le malattie legate allo stile di vita stanno ponendo un peso crescente sui sistemi sanitari di tutto il mondo. La migliore risposta è la prevenzione. Possiamo prevenire questi disturbi apportando piccole modifiche al nostro comportamento, incluso quello alimentare, e facendo esercizio fisico. Simili cambiamenti possono favorire una salute migliore. È solo questione di impegno.

Ereditarietà e colesterolo alto

Alcuni di noi non riescono a mantenere un profilo colesterolemico sano soltanto con un’alimentazione corretta e un moderato esercizio. Dieta e stile di vita contribuiscono ai livelli di colesterolo, ma a volte il colesterolo alto è dovuto a fattori genetici e può rimanere tale nonostante una buona nutrizione e una ragionevole attività fisica. Si può avere una predisposizione per l’ipercolesterolemia, ed è possibile che qui l’ereditarietà svolga un ruolo. Un buon numero di persone ha livelli di colesterolo e trigliceridi geneticamente alti, superiori a 300 mg/dl. Costoro sono a grave rischio di ogni forma di CPC, cancro e diabete, e di morte prematura. Ovviamente, devono fare di più per ridurre la percentuale di lipidi nel sangue. Occorre compiere scelte alimentari migliori, aggiungere integratori, digiunare settimanalmente, non assumere farmaci, abbandonare le cattive abitudini e svolgere più attività fisica.

Alimentazione
Nessuna pianta contiene colesterolo. Lo si trova solo negli animali e nei prodotti di origine animale. Chi segue una dieta completamente vegetariana (senza uova né latticini) non ne consuma affatto. Queste persone hanno in genere livelli di circa 150 mg/dl o meno, e ogni milligrammo di colesterolo viene elaborato dal fegato dai cibi vegetali che mangiano. Gli individui con valori geneticamente alti devono smettere di consumare carne di manzo, maiale e agnello, uova, pollame, latte e latticini. Pesce e frutti di mare possono essere mangiati con moderazione, poco più di 100 grammi al giorno, se non si è allergici. Dai la preferenza a pesci e molluschi poveri di grassi.
Gli oli vegetali non contengono colesterolo, ma anche il loro consumo andrebbe molto limitato. Di solito sono ricchi di acidi grassi omega-6 e poveri di omega-3, un altro motivo per usarne meno possibile. Gli americani hanno uno squilibrio di omega-6 rispetto agli omega-3. La migliore fonte di questi ultimi è il lino, e per i casi più difficili si consiglia di
assumere 2,5 grammi (lA cucchiaino) di olio di lino refrigerato. Consulta in proposito il capitolo 9.
Latte e latticini dovrebbero essere assolutamente evitati, incluse le forme a basso o nullo contenuto di grassi, il latte scremato senza lattosio e lo yogurt. I formaggi sono pieni di lattosio e caseina. Per sostituirli, esistono numerosi e ottimi prodotti a base di soia, riso, mandorle e avena. I latticini sono la categoria alimentare più allergenica e nociva.
Integratori
È molto importante che le persone con livelli lipidici ematici particolarmente elevati assumano tutti e quattro gli “integratori fondamentali”: betasitosterolo, olio di lino, betaglucano e isoflavoni di soia. Sarebbe una buona idea raddoppiare per un anno le dosi di betasitosterolo e betaglucano portandole rispettivamente a 600 e 400 mg. La gomma di guggul dovrebbe rimanere a 250 mg (10 per cento di steroni), e gli isoflavoni di soia a 40 mg. La prima andrebbe sospesa dopo un anno.
Anche molti degli altri integratori trattati in queste pagine dovrebbero essere inclusi nel tuo programma, compresi acidofilo, betacarotene, vitamina E, FOS, aglio, L-glutammina e lecitina. Curcumina, aloe vera, gomma di guggul e di guar, e citropectina vanno assunti solo per periodi da sei a dodici mesi. Queste sostanze sono economiche e utili alla salute in molti altri modi. Prendi per un anno 3 g di TMG (trimetilglicina) al giorno per disintossicare e depurare il fegato. Poi continua ad assumerne 1 g al giorno su base permanente. Una buona funzione epatica è essenziale per avere sani livelli di lipidi ematici.
Equilibrare gli ormoni
L’equilibrio ormonale non è più un’opzione. Come si è detto nei capitoli 15 e 16, devi equilibrare i tuoi ormoni fondamentali. DHEA e testosterone sono i primi da misurare, ma non assumere integratori finché non sia stato accertato che i loro livelli sono bassi. La melatonina dovrebbe essere assunta dalle persone oltre i quarant’anni. I suoi valori possono essere verificati esaminando la saliva prelevata alle tre del mattino. Il testosterone transdermico può essere usato sia dagli uomini che dalle donne, ma in quantità differenti. Anche il pregnenolone andrebbe assunto da tutti gli ultraquarantenni. Se in persone d’ambo i sessi i livelli di estradiolo o di estrone sono troppo elevati, è possibile abbassarli apportando cambiamenti nell’alimentazione e nello stile di vita. Le donne dovrebbero controllare l’estriolo. Gli ormoni tiroidei T3 e T4 andrebbero esaminati. L’HGH (ormone della crescita umana) può essere assunto da chiunque abbia superato i cinquantanni, ma è molto costoso e andrebbe iniettato ogni giorno. Questo è l’unico libro che parla degli effetti dei nostri ormoni sui valori di colesterolo e trigliceridi. Molti medici, perfino alcuni endocrinologi, ne sono completamente
all’oscuro e non prescrivono, come dovrebbero, test dei livelli ormonali. Il colesterolo è il precursore degli altri sei ormoni.
Esercizio
Una regolare attività fisica è essenziale per abbassare il colesterolo. La maggior parte delle organizzazioni per la sanità raccomandano un minimo di trenta minuti al giorno di esercizio da moderato a intenso, come camminare, fare jogging, andare in bicicletta o fare giardinaggio per contribuire a ridurre i valori colesterolemici. Chi combatte il colesterolo geneticamente alto deve svolgere ogni giorno più attività fisica di altri. L’ideale sarebbero esercizi sia aerobici che di resistenza. Un modo per ottenere buoni risultati è cercare di perdere o mantenere il peso. Se sei in sovrappeso, aumenti la quantità di LDL nel sangue. Le persone con livelli lipidici ematici particolarmente elevati devono dimagrire fino a ottenere un peso normale.
Digiuno settimanale
È stato dimostrato che un digiuno a intervalli regolari abbassa i livelli di colesterolo nel sangue. Inoltre, riduce la glicemia e i trigliceridi, e fa perdere peso. Digiunare settimanalmente non è un’opzione. Bere solo acqua e non mangiare nulla per 24 ore una volta alla settimana è di grande aiuto. Il digiuno fa venire appetito e, come reazione, l’organismo rilascia più colesterolo. Fissa un giorno della settimana in cui non mangerai nulla da una cena alla successiva.
Conclusione
Se anomalie genetiche inducono il tuo corpo a produrre colesterolo in eccesso o gli impediscono di assorbirlo, abbassarne i livelli è certamente più problematico. Tuttavia, ciò non significa che sia impossibile, ma solo che occorre un impegno maggiore per conquistare un sano stile di vita. La soluzione di casi difficili richiede più tempo, attenzione e applicazione.

Gli esperti riuniti per il Congresso nazionale della Società italiana di medicina interna (Simi) a Roma hanno discusso dei cosiddetti oligonucleotidi antisenso, farmaci innovativi che combattono il colesterolo e trigliceridi alti come dei piccoli ‘sabotatori’ che vanno a intralciare il metabolismo dei lipidi, impedendo che i livelli nel sangue diventino eccessivi. Questi piccolissimi frammenti di Rna siano molto efficaci nel bloccare ‘dall’interno’ la produzione di proteine implicate in numerose malattie come le coronaropatie, l’arteriosclerosi o anche il cancro. Le sperimentazioni cliniche di fase 2 su vari oligonucleotidi antisenso mirati al controllo dei lipidi hanno infatti dimostrato che con questo approccio è possibile ridurre fino al 70% trigliceridi e colesterolo in eccesso con minor costi rispetto agli anticorpi monoclonali e meno effetti collaterali delle statine.

Il meccanismo d’azione è semplice: si tratta di piccoli frammenti di Rna costruiti in laboratorio usando molecole, i nucleotidi, acidi nucleici identici a quelli che compongono sia Dna che l’Rna, ma con una sequenza invertita, per questo si chiamano ‘antisenso’. In altre parole si utilizzano gli stessi mattoni, ma si costruisce un muro alla rovescia,” spiega Domenico Girelli, docente di medicina interna dell’Università di Verona, coinvolto nell’individuazione dei bersagli molecolari e in una sperimentazione in fase di avvio anche in Italia.

Quando questa catena si inserisce in quella vera, crea una serie di errori che bloccano la proteina Pcsk9 responsabile della concentrazione del colesterolo cattivo. Infatti, quando entra in circolo la Pcsk9 degrada una seconda proteina ‘spazzina’ incaricata di rimuovere l’Ldl nel sangue: mettendo fuori uso la Pcsk9 i livelli di Ldl restano bassi proteggendo dalle malattie cardiovascolari correlate al colesterolo“.

Gli oligonucleotidi antisenso di seconda generazione sono modificati chimicamente per essere resistenti e vengono associati a molecole che li aiutano ad arrivare agli organi bersaglio, come fegato, cuore e muscoli. Le sperimentazioni cliniche di fase 1 e 2 con i nuovi oligonucleotidi antisenso mostrano riduzioni di colesterolo e trigliceridi fino al 70%, sono perciò molto promettenti. “Lo sono anche perché i costi di realizzazione del farmaco sono stimati in circa un decimo rispetto agli anticorpi monoclonali.

Inoltre, si tratta di farmaci con una durata d’azione molto lunga: nel caso dell’oligonucleotide antisenso mirato a Pcsk9 due, tre somministrazioni l’anno con iniezione sottocute sono sufficienti a ottenere un effetto anti-colesterolo simile a quello delle statine. Soprattutto, sono terapie estremamente selettive e quindi con il potenziale di un’ottima sicurezza e tollerabilità: gli oligonucleotidi antisenso possono legarsi solo al loro bersaglio, una volta individuato il target giusto possiamo costruire farmaci super-selettivi certi che non influenzeranno negativamente nessun altro organo o sistema,” dichiara Franco Perticone, presidente Simi. “Esiste già un farmaco a base di oligonucleotidi antisenso approvato dalla Food and Drug Administration si tratta di mipomersen, indicato per l’ipercolesterolemia familiare. Molti sono gli studi in corso con altri prodotti, la speranza è avere in un prossimo futuro nuove armi per combattere le iperlipidemie e ridurre così il rischio cardiovascolare, sia nei casi in cui c’è una predisposizione genetica, sia nei pazienti in cui il problema dipende soprattutto da uno scorretto stile di vita“.